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domenica 30 ottobre 2011

Su 36% e 55% scure retroattività, anche per le vecchie spese

di Cristiano Dell'Oste e Giovanni Parente

Appesi a un "ni" ci sono sette milioni di contribuenti. Si tratta di tutti coloro che hanno ristrutturato la casa (o gli immobili d'impresa) e non hanno ancora finito di scontare le rate delle detrazioni del 36 e del 55 per cento. A pronunciare il "ni" è stato il sottosegretario all'Economia, Bruno Cesario, nel question time di mercoledì scorso alla Camera, rispondendo a chi gli chiedeva se il taglio delle agevolazioni si sarebbe applicato solo alle spese sostenute dal 1° ottobre 2012 in poi.
Le manovre estive (Dl 98 e 138) dettano un aut aut chiarissimo: riforma delle agevolazioni fiscali e assistenziali entro il 30 settembre dell'anno prossimo oppure, in mancanza, taglio automatico del 5% di tutti i bonus. L'obiettivo è lo stesso: recuperare 4 miliardi di euro già per l'anno 2012.
Capire come funzionerà questo meccanismo, però, è tutt'altro che agevole. Chi ha sostituito gli infissi nel 2009, spendendo ad esempio 1.000 euro, ha diritto al 55%, con rate di 110 euro all'anno fino a Unico 2014. Ma cosa gli succederà? La rata annua scenderà del 5%? Il 14 settembre il Governo ha accolto un ordine del giorno che lo impegnava ad applicare le eventuali riduzioni solo alle spese sostenute dal 1° ottobre 2012. Nella sua risposta di mercoledì scorso, però, Cesario si è limitato a ricordare che - legge alla mano - sarà un decreto del ministero dell'Economia a chiarire come funzioneranno i tagli, in tutti i casi in cui servono istruzioni operative.
Secondo le stime del Sole 24 Ore, la questione interessa circa 5,65 milioni di contribuenti per il bonus sulle ristrutturazioni e 1,35 milioni per quello sul risparmio energetico. Grandi numeri, dunque. Ai quali corrispondono però risparmi potenziali piuttosto contenuti: appena 165 milioni con una limatura del 5 per cento.
Retroattivi o meno, i tagli – verosimilmente – scatteranno nelle dichiarazioni dei redditi presentate nel 2013 e non interessano solo il 36% e il 55 per cento. Di fatto, nella mappatura delle tax expenditures ci sono bonus molto più diffusi, come le detrazioni per lavoro dipendente e quelle per i familiari a carico. In questi casi i margini di risparmio per l'Erario sono molto più ampi - 2,4 miliardi su base annua - ma entrano in gioco considerazioni di equità sociale. Non è un caso che nel lavoro degli esperti incaricati di classificare tutte le agevolazioni, entrambe queste misure siano state catalogate con il codice "3", che contrassegna i bonus a tutela di principi di rilevanza costituzionale.
Se anche la riforma fiscale non dovesse arrivare in tempo, comunque, sarà necessario un intervento normativo. Prendiamo un esempio paradossale: "tagliare" del 5% l'esenzione Ici, di fatto, vorrebbe dire reintrodurre l'imposta sull'abitazione principale. Ma nella lista delle 500 agevolazioni a rischio c'è anche la cedolare secca sugli affitti: aumentare l'aliquota del 21% non sarebbe complicato, ma la tassa piatta è nata per far emergere gli affitti in nero, e secondo il direttore delle Entrate, Attilio Befera, potrebbe generare un miliardo di euro di maggiori incassi (si veda «Il Sole 24 Ore» del 5 ottobre).
Altro discorso è quello sull'Iva ridotta al 4% (che riguarda tra l'altro i beni di prima necessità come pane e pasta) e al 10% (gas, luce e telefono, ma anche ristrutturazioni edilizie e trasporti). In questo caso, il taglio del bonus presuppone un aumento dell'imposta e non potrebbe essere automatico, un po' come è successo con il recente passaggio dal 20 al 21% dell'aliquota ordinaria. Per avere un'idea delle cifre in gioco, passare al 4,5% e all'11% vorrebbe dire – a consumi invariati – recuperare circa 2,6 miliardi su base annua.
Forse non è un caso che la manovra di Ferragosto, anticipando di un anno tutta l'operazione, abbia inserito una frase che consente «la rimodulazione delle aliquote delle imposte indirette, inclusa l'accisa», con un Dpcm di concerto con via XX settembre. Una soluzione a portata di mano, ma solo per il breve periodo, perché i miliardi da recuperare saranno 16 per il 2013 e 20 dal 2014 in poi. E lì un ripensamento del sistema pare davvero inevitabile.


martedì 18 ottobre 2011

Bioedilizia e innovazione energetica in crescita nei comuni italiani

Sono in continuo aumento i Comuni italiani in cui vengono realizzati edifici sostenibili: è quanto si evince dal Rapporto 2011 dell’Onre (Osservatorio nazionale regolamenti edilizi per il risparmio energetico), di recente divulgazione, a cura di Legambiente e Cresme. Sono infatti 839 le realtà locali che hanno deciso negli ultimi cinque anni di modificare i propri regolamenti edilizi per inserire nuovi criteri al fine di migliorare prestazioni energetiche e qualità del costruito.
Un trend in costante crescita (erano 705 comuni nel 2010, 557 nel 2009): nei primi 9 mesi del 2011 sono ben 134 le nuove amministrazioni che sono intervenute sui regolamenti edilizi. Nelle zone in cui la normativa in vigore richiede questi strumenti innovativi vivono complessivamente oltre 20 milioni di cittadini, in città grandi e piccole. Per quanto riguarda la distribuzione geografica, il report rileva una maggiore attenzione alla sostenibilità ambientale nelle zone del centro-nord.
Ai fini dello studio sono stati inclusi diversi parametri: isolamento termico, utilizzo di fonti rinnovabili, efficienza energetica degli impianti, orientamento e schermatura degli edifici, materiali da costruzioni locali e riciclabili, risparmio idrico e recupero acque meteoriche, isolamento acustico, permeabilità dei suoli e effetto isola di calore. Inoltre, da quest’anno sono stati inseriti come indicatori anche le prestazioni dei serramenti, la contabilizzazione del calore e la certificazione energetica.

http://www.fondazioneimpresa.it/

venerdì 7 ottobre 2011

NUOVO APPRENDISTATO CONTRO LO SPRECO DI CAPITALE UMANO

 

di Tito Boeri e Pietro Garibaldi

Cresce in Italia il numero dei giovani che non studiano e non lavorano. Anche per il fallimento della laurea triennale. Una soluzione potrebbe essere la formazione tecnica universitaria sul modello delle scuole di specializzazione tedesche: una riforma a costo zero per le casse dello Stato. L'università, insieme a un certo numero di imprese locali, potrebbe introdurre un corso di laurea triennale caratterizzato da una presenza simultanea dello studente nelle aule universitarie e in azienda. Controlli reciproci garantirebbero la qualità della formazione.
Con Turchia e Messico, l’Italia vanta il primato tra i paesi Ocse nella percentuale di giovani Neet (Neither in Employment, nor in Education or Training), non occupati, né in istruzione formale o formazione. È un fenomeno in aumento: negli ultimi anni abbiamo assistito a un forte incremento della disoccupazione giovanile e, al tempo stesso, ad un preoccupante calo delle immatricolazioni universitarie, diminuite del 10 per cento in tre anni. Una delle ragioni del calo è il fallimento delle lauree triennali. Molti giovani hanno paura a imbarcarsi in un percorso di studi che potrebbe durare fino a dieci anni e provano a entrare immediatamente nel mercato del lavoro pur con basse qualifiche, contratti precari e bassi salari. Al tempo stesso, le imprese hanno ridotto gli investimenti in formazione dei giovani che entrano in azienda.
UNA RIFORMA A COSTO ZERO…
Una riforma a costo zero per le casse dello Stato è quella di introdurre la formazione tecnica universitaria sul modello delle scuole di specializzazione tedesche, le cosiddette Fachhochschule. Ciascuna università, anche sede periferica, in accordo con un certo numero di imprese locali, potrebbe introdurre un corso di laurea triennale caratterizzato da una presenza simultanea in impresa e in ateneo. Metà dei crediti verrebbe acquisito in aula e metà in azienda. Il lavoratore sarebbe impiegato in azienda e seguito da un tutor. Con controlli reciproci fra università e impresa sulla qualità della formazione conferita al lavoratore che ridurrebbero fortemente il rischio di abuso. Benché retribuito, il lavoratore non avrebbe alcun diritto automatico a entrare in azienda.
Il rapporto tra università e ingresso nel lavoro è oggi affetto da una specie di circolo vizioso. Il sistema universitario è spesso accusato di preparare studenti poco adatti a entrare nel mondo del lavoro. Il mondo delle imprese, a sua volta, è accusato di non valorizzare le competenze apprese in università. Le indagini campionarie rivelano che in Italia il cosiddetto mismatch, la mancata corrispondenza fra le qualifiche acquisite nel corso di studio e quelle richieste dalle imprese, è nettamente più alto che negli altri paesi europei, a eccezione del Portogallo. La presenza di contratti a tempo determinato e l’alta percentuale dei giovani che entra nel mercato del lavoro con un contratto a progetto rafforza il circolo vizioso perché riduce gli incentivi delle imprese a fornire formazione in azienda ai nuovi arrivati, dato che vengono assunti con contratti a scadenza e dunque non si investe sulla durata del rapporto di lavoro. Bisogna rompere questo circolo vizioso incoraggiando, a costo zero per le casse dello Stato, un ingresso formativo nel mondo del lavoro. Ma prima di illustrare nei dettagli la nostra proposta è utile richiamare cosa è stato fatto a riguardo negli ultimi due anni.
L’APPRENDISTATO CONFEDERALE DI SACCONI
Nel luglio 2011 il Consiglio dei ministri ha approvato una “riforma dell’apprendistato” presentata come il principale canale di ingresso nel mondo del lavoro dei giovani italiani. L’idea della riforma è quella di demandare alle parti sociali, attraverso la contrattazione collettiva, la definizione di specifiche clausole contrattuali legate alla formazione e all’inserimento contrattuale e presumibilmente anche la gestione dei percorsi formativi. La legge approvata si limita a stabilire la durata dell’apprendistato in tre anni e a individuare quattro tipologie di apprendistato: i) quello per la “qualifica e il diploma professionale” per gli under 25 con la possibilità di acquisire un titolo di studio in ambiente di lavoro; ii) quello “di mestiere” per i giovani tra i 18 e i 29 anni che potranno apprendere un mestiere o una professione in ambiente di lavoro; iii) quello di “alta formazione e ricerca” per conseguire titoli di studio specialistici, universitari e post-universitari e per la formazione di giovani ricercatori per il settore privato; iv) quello per la “riqualificazione di lavoratori in mobilità” espulsi da processi produttivi.
Il problema centrale di ogni contratto di apprendistato è assicurarsi che abbia davvero contenuto formativo. Nella pratica molti contratti di apprendistato vengono utilizzati solo come strumenti per ottenere più flessibilità e minori costi del lavoro. Non è casuale che la quota di assunzioni con i cosiddetti “contratti di formazione e lavoro” sia fortemente diminuita in Italia da quando si è permesso un maggiore ricorso ai contratti a tempo determinato e al parasubordinato.
Il governo affronta il problema chiedendo di fatto ai sindacati di normare e monitorare i contratti di apprendistato. Ma il sindacato in tutti questi anni avrebbe già potuto monitorare la gestione di questi contratti da parte dei datori di lavoro e verificarne il contenuto formativo. Non lo ha fatto probabilmente perché non ha la forza, la presenza in tutte le aziende, per farlo. E forse non è neanche capace di farlo. I sindacati da anni gestiscono corsi di formazione finanziati dal Fondo sociale europeo. E l’esperienza è tutt’altro che incoraggiante.
E GLI ISTITUTI TECNICI SUPERIORI DEL MIUR
Nello scorso maggio il Miur ha introdotto gli Istituti tecnici superiori, un passo utile per avvicinare mondo della formazione e mondo delle imprese. Gli Istituti tecnici superiori rappresentano un corso parallelo a quello universitario e sono fondazioni costruite da scuole, università e imprese. Si tratta indubbiamente di un’iniziativa interessante, ma nella nostra idea si dovrebbe dar vita a veri e propri corsi di laurea. Non servono altre fondazioni. Ne abbiamo fin troppe in Italia. Le università, probabilmente, sono poi restie a creare percorsi paralleli a quelli universitari. I trienni specializzanti devono invece offrire una prospettiva a quelle sedi universitarie che non raggiungono la massa critica che loro permette di attivare corsi di biennio o superiori di qualità.
IL CONTROLLO RECIPROCO FRA AZIENDA E UNIVERSITÀ
La verifica dei contenuti formativi forniti dall’azienda dovrebbe invece venire affidata a chi ha come compito istituzionale proprio la formazione. La riforma del governo dimentica del tutto l’università. È un errore molto grave. Vediamo come è possibile creare una collaborazione e al tempo stesso un controllo reciproco fra imprese e università nella gestione dell’apprendistato.
Il sistema universitario italiano ha adottato, ormai da quasi un decennio, il percorso universitario del “tre” più “due”. Secondo l’idea originale della riforma, la prima laurea triennale generalista dovrebbe essere seguita e conclusa dalla maggior parte di chi si iscrive all’università, mentre la laurea specialistica dovrebbe essere riservata agli studenti più meritevoli dal punto di vista accademico. La riforma ha riguardato quasi tutte le discipline e tutti i paesi europei, con l’eccezione della scuola di medicina e della laurea in giurisprudenza, che hanno generalmente mantenuto la durata tradizionale di 6 e 5 anni. Ad ogni modo, la laurea triennale avrebbe dovuto permettere alla maggior parte degli studenti di entrare nel mondo del lavoro. Così non è stato. Quasi tutti gli studenti iscritti alla triennale proseguono con il biennio specialistico e il mondo delle aziende non è riuscito ad accettare l’idea che la laurea triennale sia sufficiente per entrare nel mondo del lavoro da laureato. È difficile stabilire se la colpa sia del mondo delle imprese o del mondo universitario, ma è evidente che il sistema scuola-lavoro, sulla laurea triennale, non ha funzionato. Occorre quindi un nuova idea di apprendistato.
IL NUOVO APPRENDISTATO UNIVERSITARIO
L’idea è semplice. Ciascuna università, insieme a un numero di imprese localizzate sul territorio, dovrebbe istituire un corso di laurea triennale di specializzazione tecnica. Lo studente lavoratore acquisirà metà dei crediti del corso in azienda e metà dei crediti in università. Sia le imprese che le università metteranno a disposizione un tutor che seguirà il ragazzo in università e in azienda. Il ragazzo o la ragazza saranno formalmente impiegati presso l’impresa con un contratto di apprendistato della durata di tre anni, ma l’azienda non avrà alcun obbligo di assumere il giovane con un contratto unico di inserimento alla fine del triennio. Questo tipo di percorso è facilmente realizzabile nelle discipline aziendali, in quelle bancarie e assicurative, nelle discipline contabili, in giurisprudenza e anche nelle amministrazioni pubbliche. E, a seconda della specializzazione del territorio di riferimento, può essere introdotto in imprese chimiche, elettroniche, bio-mediche, nelle scienze medicali, nel design e nella gestione del turismo.
In Italia vi sono circa ottanta atenei, troppi. Molti non sono in grado di fare ricerca. Non hanno la massa critica per farlo. Ma possono garantire un buon livello di didattica. Ciascuno di questi atenei dovrebbe stringere degli accordi con le associazioni di categoria e i sindacati presenti sul territorio. Le imprese che aderiranno all’accordo dovranno soltanto impegnarsi a prendere nella loro forza lavoro un certo numero di apprendisti per anno. Ovviamente le province dell’Italia centrale daranno origine a percorsi di specializzazione tecnica diversi da quelli del Nord Italia e del Meridione. Si potrebbe così instaurare una specie di federalismo universitario basato sul rapporto impresa locale e università locale. Nel Mezzogiorno ci potrebbe essere una specializzazione nell’industria turistica mentre in alcune regioni settentrionali vi sarebbero corsi di apprendistato universitario in meccanica e scienze biomedicali.
Un aspetto importante riguarda il contratto di lavoro del giovane studente. Il contratto di lavoro in apprendistato universitario potrebbe essere simile a un contratto a progetto o a contratto a tempo determinato e non ci sarebbe alcun obbligo dell’impresa all’assunzione in via permanente. Tecnicamente è forse solo necessario che il ministero dell’Università e della ricerca autorizzi gli atenei a creare questo tipo di corso di laurea. Spetterebbe poi alle imprese locali e alle università organizzare i corsi.
Si possono anche fare delle stime. I grandissimi atenei potrebbero facilmente organizzare una decina di questi corsi con bacino di circa 800 studenti per ateneo, pari a 80 studenti per anno in ciascun corso di apprendistato. I piccoli atenei difficilmente ne organizzeranno più di due o tre ciascuno. In questo modo si potrebbe arrivare ad avere ogni anno 12-15mila nuovi giovani occupati in contratto di apprendistato. A regime, e calcolando i giovani apprendisti su tre anni, la riforma potrebbe portare i giovani occupati in apprendistato intorno alle 50mila unità, un numero di occupati che avrebbe effetti aggregati sul mercato del lavoro. Inoltre, dopo un triennio tra università e azienda, le prospettive occupazionali di lungo periodo di questi giovani sarebbero certamente migliori di quelle attuali. I giovani, una volta laureati con il contratto di apprendistato potrebbero poi entrare definitivamente nel mercato del lavoro grazie a contratti a tempo indeterminato come il Contratto unico di inserimento.

domenica 2 ottobre 2011

Dove la disoccupazione cresce la politica guadagna di più

di Chiara Paolin

L'economista Andrea Gennaro ha pubblicato un dossier sul sito lavoce.info. Risultato: gli stipendi degli amministratori sono salati mentre i risultati degli investimenti deludono. Maglia nera la Sardegna con oltre 14mila euro al mese per il governatore
“Quest’estate ero al mare in Sicilia, e leggevo sui giornali gran polemiche sugli stipendi dei consiglieri regionali. Gli onorevoli siciliani, come li chiamano laggiù. Allora ho pensato di andare a vedere quanto guadagnano davvero governatori e consiglieri comparando le indennità con i dati relativi al benessere economico della popolazione, cioè Pil e tasso di disoccupazione. Il risultato è sconfortante”. Andrea Garnero parla dal suo ufficio di Bruxelles, è un giovane economista che ha lasciato Cuneo per girare le università europee. Ma il suo cuore è rimasto impigliato nei guai tricolori.

Su lavoce.info ha pubblicato un report sui costi della politica regionale ed emette un verdetto chiaro: gli stipendi degli amministratori sono salati mentre i risultati dell’investimento deludono. Soprattutto nel Sud. A contendersi la maglia nera le solite note: Sardegna, Sicilia, Campania, Calabria, Puglia, Molise. Terre preziose per chi riesce a salire sullo scranno, visto che i governatori meritano compensi tra i 10 e i 14 mila euro al mese (record assoluto la Sardegna con 14.644 euro, subito dietro Puglia e Sicilia) e i consiglieri viaggiano amabilmente tra i 9 e gli 11 mila euro.

Il guaio è che proprio in quelle aree il prodotto interno lordo pro capite è scarso e la disoccupazione galoppa. Come dire, costano tanto e rendono poco? “Esatto – risponde Garnero –. In controtendenza totale rispetto alle altre regioni europee, in Italia se la macchina amministrativa è più cara i risultati sul territorio sono più scarsi. Vorrei chiarire che i compensi da me indicati sono precisi con un’approssimazione cui ho dovuto cedere per l’impossibilità materiale di avere tutte le voci necessarie a stabilire il costo reale, ma la sostanza è certa: l’efficienza amministrativa è ancora un miraggio per noi”.

Perché anche dove i dati socioeconomici sono meno opachi, il prezzo da pagare resta alto. Il leghista Roberto Cota guadagna 13 mila euro al mese e deve combattere una disoccupazione del 7,6 per cento nel suo Piemonte che a Pil (28.800 euro pro capite) sta messo maluccio rispetto ai superlaboriosi di montagna come la Valle d’Aosta (30.600 euro) o la provincia autonoma di Trento (31.000 euro). Idem la collega laziale Renata Polverini, che nonostante una bella ricchezza territoriale (31.100 euro a testa, da bilanciare sempre con la saggia regola del pollo diviso in due anche quando uno resta a bocca asciutta) si prende 12 mila euro al mese, ma vede i disoccupati salire oltre il 9 per cento della popolazione attiva. La Lombardia, che batte tutti in Pil (33.900 euro) offre uno stipendio da supermanager ai suoi fedeli amministratori: 11.739 euro a Roberto Formigoni e addirittura di più, 12.523 euro, ai consiglieri regionali (vedi Nicole Minetti).

“Almeno lì le cose funzionano un po’ – sospira Garnero –, e non è un’idea sbagliata calcolare che quando uno regge bene un servizio pubblico vada pagato come se gestisse un’azienda privata. Ma ci sono anche Regioni dove gli amministratori lavorano con buoni risultati e sono foraggiati molto meno: vuol dire che si può fare”.

I meno peggio della classe sono le piccole autonomie di montagna, da Bolzano alla Valle d’Aosta, ma anche l’Emilia Romagna, la Toscana, le Marche, il Friuli. Saranno loro il modello da imitare nel federalismo che verrà? “Discorso complesso – chiude Garnero –. E soprattutto mi chiedo: se fossimo già in uno Stato federale e capitasse il default della Sardegna o della Sicilia, che succederebbe all’Italia?”. All’Italia non si sa, ma la Padania dovrebbe per forza tagliare i compensi ai suoi amministratori.

da Il Fatto Quotidiano del primo ottobre 2011