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mercoledì 28 settembre 2011

Una crescita senza benessere



La crescita (che non c’è e, dove c’era, svanisce) è trattata sempre più come un obbligo. Ma quella di cui si parla è solo una crescita contabile (del Pil), finalizzata a riequilibrare i rapporti tra deficit – e debito – e Pil con un aumento del denominatore (Pil) e non solo con una riduzione dei numeratori (deficit e debito). Il tutto soprattutto per «rassicurare i mercati». Dalla crescita ci si attende anche un aumento dei redditi tassabili (non tutti i redditi lo sono, o lo sono nella stessa misura: alcuni, per legge; altri, per violazione della legge) e, quindi, delle entrate dello Stato, rendendo più facile il pareggio di bilancio (assurto al rango di obbligo costituzionale) e, forse, anche una riduzione del debito (anch’essa resa obbligatoria dal cosiddetto patto euro-plus).
Tuttavia meno spesa e più entrate non bastano a garantire il pareggio; non è detto che l’avanzo primario programmato (il surplus delle entrate sulle spese) sia compatibile con l’andamento dei tassi. Così gli interessi si accumulano in nuovo debito, una spirale, in contesti di deflazione come questo, senza fine.
La Grecia è da tempo in stato fallimentare (default): la sua economia non potrà più crescere per decenni; meno che mai in misura sufficiente ad azzerare il deficit o ripagare anche solo in parte il debito. Perché, allora, economisti e statisti non ne prendono atto?
In parte perché non sanno che fare (era una sopravvenienza prevedibile, ma mai presa in considerazione); in parte per rapinarla; pensioni, salari, posti di lavoro, servizi pubblici, isole, riserve auree: tutto quello di cui ci si può appropriare (privatizzandolo) va preso prima di ammettere l’irreversibilità della situazione.
La posizione dell’Italia non è molto diversa anche se il suo tessuto industriale è più robusto: una crescita sufficiente a pareggiare i conti non arriverà più; soprattutto strangolando così la sua economia. Ma qui i beni da saccheggiare – in barba ai risultati dei referendum – sono più succosi, mentre una presa d’atto del fallimento farebbe saltare, insieme all’euro, anche l’Unione europea. Per questo il gioco è destinato a durare più a lungo. Se però un governo ne prendesse atto, annunciando un default concordato – e selettivo: per colpire meno i piccoli risparmiatori – l’Europa correrebbe ai ripari e gli eurobond salterebbero fuori dall’oggi al domani. Ma così, dicono gli economisti, si blocca il circuito bancario e si arresta tutto il processo economico.
Certo le cose non sarebbero facili; ma non lo sono, per i più, neanche ora. Però il circuito bancario si era già bloccato dopo il fallimento Lehman Brothers, e sono intervenuti gli Stati nazionalizzando di fatto, per un po’, le banche. Succederebbe di nuovo; e anche senza uscire dall’Euro, perché a intervenire dovrebbe essere la Bce.
Quella spirale del debito non è una novità: nella seconda metà del secolo scorso quasi tutti i paesi del Sud del mondo si sono indebitati per promuovere una crescita (allora si chiamava “sviluppo“) che non è mai venuta.
Poi, non potendo ripagare il servizio del debito, sono stati tutti presi sotto tutela dal Fmi, che ha loro imposto privatizzazioni e riduzioni di spesa analoghe a quelle imposte oggi dalla Bce e dal Fmi ai paesi cosiddetti Piigs: con la conseguenza di avvitare sempre più la spirale del debito.
La letterina (segreta) che la Bce ha spedito al governo italiano per dirgli che cosa deve fare quei paesi la conoscono bene: ne hanno ricevute a bizzeffe, e sono andati sempre peggio.
Viceversa, le economie cosiddette emergenti sono quelle che avevano scelto di non indebitarsi, o che ne sono uscite con un default: cioè decidendo di non pagare – in parte – il loro debito.
La crescita di cui parlano gli economisti – e di cui blaterano tanti politici – è la ripresa, accelerata, del meccanismo che ha governato il mondo occidentale nella seconda metà del secolo scorso e che oggi torna a operare, tra l’invidia generale, nei paesi cosiddetti emergenti (i quali hanno ritmi di sviluppo accelerati solo perché sono partiti da zero, o quasi); mentre da noi quel meccanismo è ormai irripetibile anche in paesi considerati locomotive del mondo.
Vorrebbero tornare a moltiplicare la produzione di automobili, di elettrodomestici, di gadget elettronici, in mercati ormai saturi e gravati da eccesso di capacità (vedi il fiasco di Marchionne); di moda e di articoli di lusso in un mondo in cui i ricchi non sanno più che cosa comprare perché hanno già tutto e di più (mentre le produzioni a basso costo sono state delocalizzate in paesi emergenti; per cui ogni eventuale, quanto improbabile, aumento dei redditi da lavoro non avrebbe comunque conseguenze sull’occupazione in Occidente); di turismo in ambienti naturali sempre più degradati e – soprattutto: questa dovrebbe essere la “molla” della ripresa – di Grandi opere.
Si tratta di un modello di impresa fondato su finanziamenti pubblici (spesso contrabbandati come finanza di progetto); su catene senza fine di subappalti (con conseguente corruzione, evasione fiscale, caporalato e mafia: non sono guai solo italiani); guasti irreversibili ai territori; inganni e violenze sulle popolazioni locali per imporre l’opera per poi, alla fine dei lavori, destinare all’abbandono territori e tessuti sociali degradati. Il Tav in Val di Susa ne è il paradigma.
Per la protezione dell’ambiente, invece, niente. Dicono che per favorire il ritorno alla crescita va – temporaneamente – sospesa. Così si succedono i summit mondiali che non decidono niente, mentre il pianeta corre verso il collasso. Per l’equità – tra paesi ricchi e paesi poveri; tra ricchi e poveri di uno stesso paese; tra l’oggi e le generazioni future – meno ancora.
La crescita per fare fronte al debito non riguarda quindi né l’occupazione (c’è da tempo un disaccoppiamento tra occupazione e aumento del Pil, dei fatturati e dei profitti); né la qualità del lavoro (è sempre più precario in tutto il mondo e si investe sempre meno in formazione); né i redditi da lavoro diretti o differiti (le pensioni); né il benessere delle comunità, messo sotto scacco dal degrado ambientale, dal taglio dei servizi e del welfare, dall’aumento delle persone disoccupate, scoraggiate o emarginate (sospinte sempre più numerose sotto la soglia della povertà); né tiene conto della distruzione della socialità e della socievolezza.
Infine, la crescita affidata ai meccanismi di mercato aborre dalle politiche industriali; e se le propone o le invoca, è solo per dare una spinta – con incentivi, sgravi fiscali, tassi di interesse sotto zero o investimenti pubblici in Grandi opere – a un meccanismo che poi dovrebbe andare avanti da sé: non ci sono obiettivi generali da perseguire, perché deve essere il mercato a selezionare quelli che corrispondono alle propensioni del consumatore (esaltato come sovrano quanto più viene soggiogato dai meccanismi della pubblicità e della moda); non ci sono problemi di governance – intesa come composizione degli interessi e partecipazione dei lavoratori e delle comunità alla gestione delle attività che si svolgono su un territorio – perché è l’impresa che deve avere il controllo assoluto su di esse (come sostiene Marchionne tra gli applausi generali).
Le privatizzazioni sono la traduzione di questa logica: il trasferimento della sovranità da quel che resta degli istituti della democrazia rappresentativa al dispotismo di imprese sempre più grandi, potenti, centralizzate, lontane dai territori e dalle comunità.
Anche questa è una spirale senza fine: più si smantella quanto di pubblico, condiviso, egualitario è stato conquistato negli anni, più si imputa la mancanza di risultati al fatto che non si è ancora smantellato abbastanza. Il liberismo è un dogma senza possibilità di verifiche praticato da una setta incapace di tornare sui suoi passi.
Per far fronte alla crisi – che è innanzitutto crisi delle condizioni di vità della maggioranza della popolazione – valorizzando le risorse che territori, comunità e singoli sono in grado di mettere in campo - ci vuole invece una vera politica economica e industriale; che oggi non può che essere unprogramma di riconversione ecologica di consumi e produzioni, tra loro strettamente interconnessi.
Non c’è spazio – né ambientale, né economico, né sociale – per rilanciare i consumi individuali: generazione ed efficienza energetiche, mobilità sostenibile, agricoltura e alimentazione a km0, cura del territorio, circolazione dei saperi e dell’informazione (e non della patonza) non possono che essere imprese condivise, portate avanti congiuntamente dai lavoratori, dalle loro organizzazioni, dalle iniziative comunitarie, dalle amministrazioni locali, dalle imprese legate o che intendono legarsi a un territorio di riferimento (prime tra le quali, i servizi pubblici locali: non a caso sotto attacco).
Le produzioni che hanno un avvenire, e per questo anche un mercato vero, sono quelle che corrispondono a questi orientamenti; ad esse dovrebbero essere riservate tutte le risorse finanziarie impiantistiche, tecniche e soprattutto umane che è possibile mobilitare.
Questo è anche un preciso indirizzo di governance per prendere in carico la conversione ecologica. Sostituire un’economia fondata sul consumo individuale e compulsivo con un sistema orientato al consumo condiviso (che non vuol dire collettivo o omologato: la condivisione esige attenzione per le differenze e per la loro realizzazione) non può essere programmata in modo verticistico; né gestita con i meccanismi autoritari delle Grandi opere.
La conversione ecologica è un processo decentrato, diffuso, differenziato sulla base delle esigenze e delle risorse di ogni territorio, integrato e coordinato da reti di rapporti consensuali, basato sulla valorizzazione di tutti i saperi disponibili.
Una politica economica e industriale che si ponga questi obiettivi può anche affrontare, in modo selettivo e programmato, l’azzardo di un default: per non destinare più le risorse disponibili al pozzo senza fondo del debito pubblico. Ma certo questo richiede l’esautoramento di gran parte delle attuali classi dirigenti (e di molti economisti).
L’alternativa non è dunque tra crescita e decrescita, ma tra cose da fare e cose da non fare più.


di Guido Viale – «il manifesto».

domenica 18 settembre 2011

Ue: “In Italia crescita zero nel secondo semestre 2011″

Nel secondo semestre dell’anno la ripresa in Italia si fermerà e su base annua il Pil crescerà dello 0,7% (contro l’1% stimato lo scorso maggio): queste le indicazioni delle previsioni economiche diffuse oggi dalla Commissione europea, secondo cui le prospettive dell’economia sono “incerte e molti sono i rischi che pesano su previsioni” economiche già “deteriorate”. Per Bruxelles, la domanda “moderata”  inciderà sull’export, ovvero il fattore che finora ha trainato la crescita. In aumento, inoltre, il costo dei finanziamenti per le imprese a causa delle recenti tensioni sui mercati valutari, il che inciderà negativamente sugli investimenti. Male anche i consumi privati così come gli indici di fiducia di imprese e famiglie, che hanno registrato forti flessioni negli ultimi mesi. Sul fronte dell’inflazione, invece, Bruxelles ha confermato per l’Italia la stima di maggio, ovvero un tasso di incremento dei prezzi al consumo del 2,6%.
Secondo il commissario per gli affari economici e monetari Olli Rehn, “la ripresa che segue una crisi finanziaria è spesso lenta e irta di ostacoli” e oggi ci si trova in un “contesto esterno più difficile mentre la domanda interna resta debole”. Per Rehn, la crisi del debito sovrano “si è aggravata e le turbolenze sui mercati finanziari sono destinate a frenare l’economia reale”, il che richiede “costanza” nell’attuazione di una  strategia di risanamento di bilancio che sia differenziata e favorevole alla crescita” e di decisioni per la stabilità finanziaria. Inoltre, le riforme strutturali “sono più importanti che mai” per creare il futuro potenziale di crescita. Le misure per il consolidamento dei conti pubblici contenute nella manovra approvata nei giorni scorsi dal Parlamento italiano, inoltre, a sentire Rehn non avranno “nessun impatto sulla crescita del Pil di quest’anno, ma avranno un impatto sulla crescita dal 2012 al 2014″. La manovra, però, per Rehn va nella “giusta direzione”, anche se ora all’Italia servono più misure “per stimolare la crescita” e “ulteriori sforzi per la liberalizzazione dell’economia”.

venerdì 9 settembre 2011

NEL 2014 LA PRESSIONE FISCALE ARRIVERA' AL 44,7%

Le recenti manovre fiscali (DL 98/2011 e DL 138/2011) con le quali si pone l’obiettivo di raggiungere il pareggio di bilancio già dal 2013, sono composte prevalentemente da maggiori entrate e, in particolare, da maggiori entrate fiscali.
Questo comporterà un forte inasprimento della pressione fiscale, che nel 2012 raggiungerà il livello record del 1997 pari al 43,7%, e, negli anni successivi, lo supererà, arrivando a raggiungere nel 2014 quota 44,7%.
L’Ufficio Studi della CGIA di Mestre, utilizzando le previsioni di finanza pubblica contenute nel DEF 2011 (Documento di Economia e Finanza) e i documenti parlamentari, ha ipotizzato che le maggiori entrate fiscali previste con le manovre finanziarie vadano ad aumentare le entrate fiscali preventivate.
Il risultato a cui si perviene potrebbe essere sottostimato (e quindi il livello di pressione fiscale ancora più elevato), in quanto non si è considerato il gettito di tutte le nuove misure introdotte (ad esempio quello derivante dal possibile recupero della rate scadute e non versate del condono IVA 2002 e dell'imposta di bollo sui trasferimenti di denaro degli stranieri). Inoltre gli enti territoriali, per recuperare risorse finanziarie in seguito ai rilevanti tagli delle Finanziarie, potrebbero aumentare le tasse locali nell'ambito della loro possibilità di manovra.

“Giuseppe Bortolussi, segretario della CGIA di Mestre, dichiara che la pressione fiscale può aumentare anche oltre la soglia del 44,7%, se si considera che la maggiore imposizione fiscale potrebbe ridurre la crescita economica e, quindi, il livello del PIL. In questo caso, se si ipotizza che nel 2014 il PIL si mantenga sui medesimi livelli del 2013, la pressione fiscale sarebbe pari al 46,2%, percentuale che salirebbe al 46,7% in caso di recessione consistente”.

martedì 6 settembre 2011

«Meno male che i mercati si sono accorti che l’Italia non è credibile»

di Antonio Vanuzzo
«Mario Monti è un grande politico, ma le misure di consolidamento fiscale di cui ha bisogno l’Italia rimangono le stesse qualsiasi sia il colore del governo». Lo dice a Linkiesta Hans Werner Sinn, presidente dell’Ifo e consigliere ascoltato da Angela Merkel. L’economista tedesco ritiene che la Bce abbia sbagliato a varare un programma di acquisto di bond italiani.
CERNOBBIO – «Meno male che i mercati si sono accorti che l’Italia aveva bisogno di una riforma del debito e della spesa pubblica». Va diretto al punto Hans Werner Sinn, presidente dell’Ifo, l’Istituto che si occupa di “tastare il polso” agli imprenditori tedeschi. Un indicatore molto osservato dai mercati per capire che aria tira nella principale economia europea.
Ieri mattina durante la prima sessione del Workshop Ambrosetti ha affermato che l’economia del Nord Italia «è tra le più forti d’Europa e salverà il resto del Paese». Come riallineare il Sud Italia e l’Europa mediterranea con il Nord Europa?
L’Italia e la Germania hanno problemi simili, come la competitività di alcune regioni, perché tutte le regioni hanno gli stessi salari. Credo dovremmo avere diversi livelli salariali a seconda della velocità della crescita economica. Tenere bassi i salari ad esempio in alcune regioni d’Italia, dove la crescita è più difficoltosa e dove la vita costa di meno, potrebbe stimolare la loro competitività e di conseguenza aumentare il livello di occupazione. In Germania abbiamo una politica da “stessa paga a parità di lavoro” che di fatto ha ostacolato l’ex Germania Est rispetto alla Germania Ovest.
Lei sostiene che la Bce non avrebbe mai dovuto varare un programma di acquisto di bond italiani e spagnoli. Perché?
Perché i Trattati di Maastricht vietano espressamente di finanziare i singoli Paesi. Condivido la visione del presidente della Bundesbank (la banca centrale tedesca, Ndr), che sostiene come l’acquisto di bond governativi sul mercato sia una forzatura dell’interpretazione dei trattati. Da un punto di vista “legale”, ho seri dubbi sulla condotta della Bce. Da un punto di vista squisitamente economico, gli acquisti massicci di Btp italiani da parte di Francoforte hanno determinato una fittizia riduzione del differenziale di rendimento con i bund, e questo ha diminuito l’urgenza di adottare misure significative per tagliare il debito e il deficit. Ritengo che il differenziale di rendimento sia una sorta di “strumento di controllo disciplinare” per i Governi, per far sì che non spendano soldi che non hanno.
Vero, ma allora la Bce non avrebbe dovuto nemmeno mandare una lettera al governo Berlusconi, chiedendo un preciso programma per evitare l’effetto contagio.
Si, ma la lettera rappresenta soltanto un avvertimento disciplinare, il cui effetto è pari a zero se accompagnato da un massiccio acquisto di titoli di Stato. Sarebbe stato meglio non scrivere la lettera né acquistare bond italiani. L’acquisto di bond riduce i differenziali di rendimento, è vero, ma questi spread sono necessari per mantenere sotto controllo l’eccessivo afflusso di capitali esteri in un sistema economico.
Crede che un governo “tecnico” guidato da Mario Monti potrebbe approvare con tempestività le misure di riduzione di debito e deficit che il mercato e l’Europa ci chiede?
Credo che Mario Monti sia un grande politico, adatto ad avere dei ruoli di vertice in Italia, e rispettato ovunque. Tuttavia, le misure di consolidamento fiscale di cui ha bisogno l’Italia rimangono le stesse qualsiasi sia il colore del governo. È assolutamente necessario agire ora, semplicemente perché non ci sono alternative. L’unica opzione possibile per l’Italia è l’austerity, altrimenti i salari e l’inflazione andranno fuori controllo.
Lei è molto scettico sul futuro dell’euro: parlare di uscita della Grecia dalla moneta unica non è più un tabù da molto tempo.
Non sono scettico sull’euro. Ritengo che saprà sopravvivere a questo periodo particolarmente turbolento, in quanto penso l’Europa abbia bisogno di una moneta unica. Per quanto riguarda la Grecia, rimanere in Eurozona sarà sempre più difficile, perché non vedo come il Paese possa ritornare ad essere competitivo senza una svalutazione. Anche se il debito ellenico venisse ristrutturato, l’economia non sarebbe in grado di crescere, perché il Paese è troppo caro rispetto, per esempio, alla vicina Turchia. Rimanere nell’euro, per la Grecia, significa dover affrontare un lunghissimo periodo di stagnazione, alti livelli di disoccupazione e tensioni politiche. Tuttavia, uscire dall’euro non è semplice, perché si realizzerebbe una catena di default che distruggerebbe il sistema bancario greco. Tutte le misure di austerità richieste dall’Europa vanno accompagnate proprio per questo con un pacchetto di aiuti al sistema finanziario di Atene.
Il parlamento tedesco ha ritardato il voto sul meccanismo salva-Stati Efsf, dal 21 al 29 settembre. Ritiene che l’Efsf sia uno strumento funzionale per calmare i mercati?
Penso che la dotazione finanziaria dell’Efsf sia troppo elevata, in quanto invita gli Stati in difficoltà a servirsene. Di fatto, è un passo in avanti nella direzione degli eurobond, che credo siano assolutamente pericolosi per l’Eurozona in quanto spalmano le responsabilità dei singoli Stati su tutti gli altri Stati membri, senza alcuna differenza di merito.
La Germania pagherebbe più di tutti.
Sicuramente, ma anche per ragioni di efficienza economica: gli eurobond eliminano il premio al rischio pagato dagli Stati con un elevato livello di indebitamento, eliminando per questo la funzione di “controllo disciplinare” dei mercati. I Paesi europei continuerebbero a basarsi pesantemente sull’indebitamento per finanziare la propria spesa pubblica, come è avvenuto prima della crisi dei debiti sovrani, e alla fine l’intera Eurozona affonderebbe soffocata dai suoi debiti. Basti pensare al rischio di contagio tra gli Stati fiscalmente sani e quelli malati. Recentemente, il premio al rischio pagato dalla Germania per il solo fatto di partecipare a questo programma è salito oltre quello della Gran Bretagna, per la prima volta nella storia. Ciò significa che anche la Germania è sulla buona strada per perdere progressivamente la sua credibilità sui mercati.
Un commento sugli ultimi dati relativi al Pil tedesco, sostanzialmente a zero negli ultimi due trimestri. È un cambiamento congiunturale o un rallentamento temporaneo?
Gli ultimi dati sul Pil tedesco non sono stati per nulla buoni, ma per il semplice fatto che abbiamo deciso di chiudere le nostre centrali atomiche. Una decisione politica pesante che non ha nulla a che fare con il ciclo economico tedesco. Il clima che attraverso l’Ifo misuriamo ogni mese è peggiorato significativamente, ma siamo ancora a livelli elevati, e il giudizio degli operatori sulla situazione economica tedesca rimane ancora molto buono, ma non così buono come in primavera. Vediamo un sostanziale raffreddamento nell’attività economica, ma non si tratta assolutamente di una recessione. Semplicemente, il boom straordinario che ha vissuto l’economia tedesca è passato. La Germania avrà ancora l’opportunità di crescere sopra la media dell’Eurozona negli anni a venire, almeno fino a quando rimarrà un porto sicuro per i capitali.
antonio.vanuzzo@linkiesta.it