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martedì 6 settembre 2016

il rimedio è la povertà

Questo articolo apparve il 30 giugno 1974, ed è straordinario. Una meraviglia di stile e di pensiero di Goffredo Parise.

Questo è un articolo di Goffredo Parise tratto dalla rubrica che lo scrittore tenne sul “Corriere della sera” dal 1974 al 1975. Si trova nell'antologia "Dobbiamo disobbedire", a cura di Silvio Perrella, edita da Adelphi. Questo articolo apparve il 30 giugno 1974, ed è straordinario. Una meraviglia di stile e di pensiero di questo autore sicuramente libero e lontano da ogni appartenenza politica e salottiera. Rappresenta per noi oggi - media compresi che non ospitano più pezzi così controcorrente - uno schiaffo contro la nostra inerzia.

«Questa volta non risponderò ad personam, parlerò a tutti, in particolare però a quei lettori che mi hanno aspramente rimproverato due mie frasi: «I poveri hanno sempre ragione», scritta alcuni mesi fa, e quest’altra: «il rimedio è la povertà. Tornare indietro? Sì, tornare indietro», scritta nel mio ultimo articolo.

Per la prima volta hanno scritto che sono “un comunista”, per la seconda alcuni lettori di sinistra mi accusano di fare il gioco dei ricchi e se la prendono con me per il mio odio per i consumi. Dicono che anche le classi meno abbienti hanno il diritto di “consumare”.

Lettori, chiamiamoli così, di destra, usano la seguente logica: senza consumi non c’è produzione, senza produzione disoccupazione e disastro economico. Da una parte e dall’altra, per ragioni demagogiche o pseudo-economiche, tutti sono d’accordo nel dire che il consumo è benessere, e io rispondo loro con il titolo di questo articolo.

Il nostro paese si è abituato a credere di essere (non ad essere) troppo ricco. A tutti i livelli sociali, perché i consumi e gli sprechi livellano e le distinzioni sociali scompaiono, e così il senso più profondo e storico di “classe”. Noi non consumiamo soltanto, in modo ossessivo: noi ci comportiamo come degli affamati nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo nauseante. Lo spettacolo dei ristoranti di massa (specie in provincia) è insopportabile. La quantità di cibo è enorme, altro che aumenti dei prezzi. La nostra “ideologia” nazionale, specialmente nel Nord, è fatta di capannoni pieni di gente che si getta sul cibo. La crisi? Dove si vede la crisi? Le botteghe di stracci (abbigliamento) rigurgitano, se la benzina aumentasse fino a mille lire tutti la comprerebbero ugualmente. Si farebbero scioperi per poter pagare la benzina. Tutti i nostri ideali sembrano concentrati nell’acquisto insensato di oggetti e di cibo. Si parla già di accaparrare cibo e vestiti. Questo è oggi la nostra ideologia. E ora veniamo alla povertà.



Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà non è “comunismo”, come credono i miei rozzi obiettori di destra.



Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l’automobile, le motociclette, le famose e cretinissime “barche”.

Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso economico) di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione.

Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi. Tutto il nostro paese, che fu agricolo e artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione elementare delle cose perché non ha più povertà.

Il nostro paese compra e basta. Si fida in modo idiota di Carosello (vedi Carosello e poi vai a letto, è la nostra preghiera serale) e non dei propri occhi, della propria mente, del proprio palato, delle proprie mani e del proprio denaro. Il nostra paese è un solo grande mercato di nevrotici tutti uguali, poveri e ricchi, che comprano, comprano, senza conoscere nulla, e poi buttano via e poi ricomprano. Il denaro non è più uno strumento economico, necessario a comprare o a vendere cose utili alla vita, uno strumento da usare con parsimonia e avarizia. No, è qualcosa di astratto e di religioso al tempo stesso, un fine, una investitura, come dire: ho denaro, per comprare roba, come sono bravo, come è riuscita la mia vita, questo denaro deve aumentare, deve cascare dal cielo o dalle banche che fino a ieri lo prestavano in un vortice di mutui (un tempo chiamati debiti) che danno l’illusione della ricchezza e invece sono schiavitù. Il nostro paese è pieno di gente tutta contenta di contrarre debiti perché la lira si svaluta e dunque i debiti costeranno meno col passare degli anni.

Il nostro paese è un’enorme bottega di stracci non necessari (perché sono stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori. Si mettano bene in testa gli obiettori di sinistra e di destra, gli “etichettati” che etichettano, e che mi scrivono in termini linguistici assolutamente identici, che lo stesso vale per le ideologie. Mai si è avuto tanto spreco di questa parola, ridotta per mancanza di azione ideologica non soltanto a pura fonia, a flatus vocis ma, anche quella, a oggetto di consumo superfluo.



I giovani “comprano” ideologia al mercato degli stracci ideologici così come comprano blue jeans al mercato degli stracci sociologici (cioè per obbligo, per dittatura sociale). I ragazzi non conoscono più niente, non conoscono la qualità delle cose necessarie alla vita perché i loro padri l’hanno voluta disprezzare nell’euforia del benessere. I ragazzi sanno che a una certa età (la loro) esistono obblighi sociali e ideologici a cui, naturalmente, è obbligo obbedire, non importa quale sia la loro “qualità”, la loro necessità reale, importa la loro diffusione. Ha ragione Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia. Esiste, nel nauseante mercato del superfluo, anche lo snobismo ideologico e politico (c’è di tutto, vedi l’estremismo) che viene servito e pubblicizzato come l’élite, come la differenza e differenziazione dal mercato ideologico di massa rappresentato dai partiti tradizionali al governo e all’opposizione. L’obbligo mondano impone la boutique ideologica e politica, i gruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di nascita del grand marché aux puces ideologico e politico di questi anni. Oggi, i più snob tra questi, sono dei criminali indifferenziati, poveri e disperati figli del consumo.



La povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose per necessità. So di cadere in eresia per la massa ovina dei consumatori di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressione di se stessi e libertà e, in una parola, piacere estetico. Comprare un oggetto perché la qualità della sua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona.



Per le ideologie vale la stessa regola. Scegliere una ideologia perché è più bella (oltre che più “corretta”, come dice la linguistica del mercato degli stracci linguistici). Anzi, bella perché giusta e giusta perché conosciuta nella sua qualità reale. La divisa dell’Armata Rossa disegnata da Trotzky nel 1917, l’enorme cappotto di lana di pecora grigioverde, spesso come il feltro, con il berretto a punta e la rozza stella di panno rosso cucita a mano in fronte, non soltanto era giusta (allora) e rivoluzionaria e popolare, era anche bella come non lo è stata nessuna divisa militare sovietica. Perché era povera e necessaria. La povertà, infine, si cominci a impararlo, è un segno distintivo infinitamente più ricco, oggi, della ricchezza. Ma non mettiamola sul mercato anche quella, come i blue jeans con le pezze sul sedere che costano un sacco di soldi. Teniamola come un bene personale, una proprietà privata, appunto una ricchezza, un capitale: il solo capitale nazionale che ormai, ne sono profondamente convinto, salverà il nostro paese».




martedì 10 maggio 2016

Sviluppo del Paese

C’è oggi nel nostro Paese, in dimensioni decisamente maggiori rispetto agli altri paesi, una vera e propria emergenza educativa, sociale, culturale e occupazionale che riguarda i giovani e il loro futuro.
Lavoro, sapere e diritti devono tornare al centro delle scelte strategiche per restituire fiducia e futuro al Paese.
Fino ad oggi il nostro Paese non ha superato il gap negli investimenti in conoscenza che lo divide  dai paesi più sviluppati e non ha  realizzato riforme utili a innalzare i livelli di  conoscenza.
Si è così prodotto un epocale disinvestimento, economico e politico, nei sistemi di istruzione, formazione e ricerca che  accresce la divisione dei cittadini sulla base delle disponibilità economiche, dell’appartenenza sociale, culturale, etnica e territoriale.
In questo quadro i sistemi pubblici rischiano di assumere una funzione marginale: istruzione e formazione pubblica per coloro che non  possono permettersi percorsi di qualità a pagamento e ricercatori costretti a trovare occupazione all'estero.
Tutto ciò sta allontanando l’Italia da quei paesi che, con lungimiranza, considerano, invece, la conoscenza l’elemento su cui puntare per uscire dalla crisi.
E’ necessario arrestare questa china, aumentando gli investimenti in istruzione, formazione e ricerca, adeguandoli velocemente agli standard europei.  Il sapere è, infatti, volano decisivo per affermare un nuovo modello di sviluppo.
Siamo sottoposti a una sollecitazione conoscitiva inedita: la straordinaria crescita delle conoscenze e la velocità del loro continuo cambiamento implicano una profonda rivisitazione dei sistemi della conoscenza e una profonda riconversione dei sistemi produttivi.
Oggi, infatti, le prospettive di sviluppo si giocano sull’attivazione di un circolo virtuoso tra potenziamento della ricerca, innalzamento dei livelli di istruzione e formazione della popolazione, riposizionamento dei sistemi produttivi in direzione dell’innovazione, della qualità e della sostenibilità.  Istruzione, formazione e ricerca assumono un ruolo decisivo all’interno di un moderno concetto di cittadinanza e di programmazione economica e, in questa prospettiva, il lavoro riacquista senso, dignità e valore.
La conoscenza, in quanto bene comune, deve costituire la base del progetto di rinnovamento sociale e di ricostruzione democratica ed etica del nostro Paese.
Democrazia, partecipazione, rispetto della persona, delle differenze e comprensione dell’altro sono valori che vanno riaffermati e  trasmessi alle future generazioni, per costruire “un mondo migliore di quello che abbiamo trovato”.
Per questo occorre  ridefinire  finalità, ruolo e funzioni dei sistemi pubblici, attualizzandone la funzione sociale nell’ottica della costruzione di un nuovo modello di sviluppo fondato sulla solidarietà e giustizia e sulla sostenibilità ambientale.
Il ruolo delle istituzioni oggi deve giocarsi sul terreno della cittadinanza, sulla capacità cioè di formare persone in grado di governare la propria vita, educando ai valori condivisi,  alla legalità ed alla consapevolezza dei propri diritti.  E’ dunque compito prioritario dei processi educativi,  formare mentalità critiche capaci di risolvere problemi abituando  al dubbio, all'imprevisto, alla curiosità;  tutte cose indispensabili per vivere, lavorare, continuare a studiare.
Ne deriva che è necessario:
1.      sapere di più e meglio in ogni fase della vita;
2.     ripensare al sapere che serve;
3.     riorganizzare profondamente i percorsi di istruzione, formazione e ricerca ed i sistemi di valutazione ad essi collegati.
Il superamento di ogni forma di precarietà è presupposto per la reale garanzia della libertà con retribuzioni adeguate e la certezza dei diritti del lavoro.
La conoscenza è strumento fondamentale per la crescita personale,  il superamento delle disuguaglianze e  la qualificazione del modello di sviluppo del paese.
Ridare futuro, speranza e fiducia al paese  è la priorità.






martedì 8 marzo 2016

Capitalismo e Socialismo, due facce della stessa medaglia.

Il Capitalismo Sociale

 Carpe diem, cogli l'attimo. Si cogli l'attimo va sempre bene, ma qui il fatto é che non pensare al domani (avere degli obbiettivi futuri) accontentandosi del presente, riduce drasticamente l'agire in previsione dell'avvenire. Ecco che manca la spinta per costruire, per crescere. Il problema è che oggi l'uomo subisce una involuzione nella concezione del domani, subordinando il presente all'avvenire. È l'obiettivo futuro che da all'uomo la spinta per crescere. In assenza, godendo del solo presente, ci si accontenta e si subisce passivamente quello che la vita passa. Due visioni diverse, una pro attiva l'altra passiva. 

Stiamo diventando soggetti passivi nelle dinamiche delle cose. La società cresce e progredisce qualora i suoi membri siano soggetti attivi nelle dinamiche della crescita. Soggetti protagonisti, non pecore indirizzate da pastori e cani.

La tendenza odierna è uniformare i pensieri, le mode, gli atteggiamenti, questo al solo scopo di creare masse dei consumatori (io li chiamo utilizzatori) standardizzati, per cui sia facile indirizzare i consumi e i pensieri. In Economia come in Politica.
Quindi ecco farsi strada (per induzione) il pensiero unico nella vita quotidiana in tutti noi. Negli oggetti, nel pensiero politico e nell'economia. Chiunque sia fuori dai "canoni" è un diverso, un disadattato sociale. 
Ci troviamo davanti a una voluta distruzione dell'individualità dell'uomo, della capacità di ragionare secondo i propri canoni, soppiantati da quelli "indotti" una vera e propria "globalizzazione" dei canoni. Quindi non più l'uomo (il suo intelletto, il suo pensiero) al centro del progetto della società futura, ma la massa uniformata e standardizzata di persone epurate da ideologie, cultura e valori propri.
Sembra di vivere in un romanzo Orwelliano, dove un Essere supremo (multinazionali?) impartisce ordini e pensieri, facendoci credere che è nel nostro interesse (Il bene comune).
L'annientamento dell'individuo e la conseguente omologazione in un elemento della massa, frena prima e blocca poi, la capacità dell'uomo di essere pro attivo nella visione del futuro, che così si accontenta di quello che ci viene dato. 
L'iniziativa privata diffusa e la conseguente classe media nata da essa, sono sempre state i motori di miglioramento delle condizioni sociali, elevando i singoli verso traguardi sempre più alti, nella costante ricerca del miglioramento economico personale prima, della propria famiglia e quindi della propria comunità. Ecco che la ricerca del miglioramento ha portato innovamento e con esso ne ha guadagnato la società ove questo modello si è sviluppato, ossia l'occidente.
Ma proprio l'occidente è il carnefice di se stesso, alterando i valori propri dell'individualità imprenditoriale attraverso la spersonalizzazione delle imprese. Ecco che nascono le Holding, le Spa, i grandi gruppi che uccidono le imprese personali.
Una nuova forma di Capitalismo si sta affermando. Io lo l'ho definito "Capitalismo Sociale".
Il Socialismo e il Capitalismo si sono combattuti per quasi due secoli, ponendosi in contrapposizione uno dell'altro. Il bene comune contro il profitto, in una sorta di guerra tra il bene e il male, inteso a secondo della parte di appartenenza. Da queste visioni di mondo sono nati due blocchi economici/sociali, distinti e distanti. L'occidente capitalista, capeggiato dagli USA e l'oriente comunista capeggiato dall'URSS.
Sappiamo tutti della guerra fredda, la corsa degli armamenti, la corsa alla conquista dello spazio. Ma questa contrapposizione (una sorta di concorrenza tra blocchi) ha portato paradossalmente enormi benefici per l'occidente. La volontà di primeggiare, ha portato il modello occidentale più liberale (la supremazia dell'individuo) a livelli straordinaria di crescita in tutti i settori, culminata negli anni settanta/ottanta con l'abbattimento del muro di Berlino. Si il culmine e l'inizio del declino.
Il muro di Berlino, se da una parte ha reso libero l'oriente dalla schiavitù del Collettivismo comunista, ha fatalmente contagiato l'occidente con le ideologie socialiste.
Ecco che, nell'arco degli ultimi trentanni, si è imposto una forma ibrida di capitalismo, che porta in dote i geni dell'uno de dell'altro dei modelli economici; il "Capitalismo Sociale".
Sono convinto che nel mondo si stia affermando una nuova classe sociale che é frutto di un compromesso tra le vecchie classi sociali. Una nuova forma parassitaria, più evoluta, più resistente. Io lo chiamo " Il Capitalista Sociale". In Italia ne vediamo esempio nei nuovi ricchi, i vari Farinetti, Serra, Carrai e Casaleggio ecc.
Diventano ricchi su iniziativa privata, ma con capitali pubblici (i soldi dei privati). Ecco la nuova frontiera del business mondiale.
Lo abbiamo visto benissimo e lo paghiamo sulla nostra pelle tutti i giorni, nelle dinamiche della cosiddetta finanza creativa, che grazie all'operato delle Banche Centrali, sta drenando denaro privato (denaro vero) a copertura dei titoli carta straccia creati sui debiti, dalla finanza mondiale (denaro virtuale).
L'esproprio della ricchezza privata avviene nell'unico modo lecito possibile; le tasse.
Aumentare la spesa pubblica (tramite governi amici) aumenta conseguentemente il fabbisogno degli stati, che rinpinguano le casse chiedendo maggiore contribuzione ai propri cittadini (più tasse tasse). Il must ripetuto ossessivamente è se paghiamo le tasse, le tasse ci ripagano con i servizi. Ma abbiamo visto tutti, a nostre spese, che così non è.
Ecco dunque la nuova frontiera del business, fare i soldi espropriando la ricchezza privata; iniziativa privata (holding) ma soldi pubblici (cittadini). 
Ecco eliminato d'un botto il rischio d'impresa nel fare business.,quindi privatizzare il profitto e socializzare le perdite.
Peccato non esserci fra 50 anni per leggere cosa scriveranno i libri di storia di questo nostro periodo. 
Cosa resterà di questo frenetico periodo, dove sta venendo alla luce tutta la fragilità della nostra condizione umana, esaltando il peggio che alberga in noi. Paure, egoismi, disperazione, insicurezza, smarrimento, il senso di precarietà della nostra esistenza, in balia degli accadimenti della vita. Pur sapendo cosa ci accade, siamo incapaci di reagire e subiamo gli eventi invece di dominarli.
Quanti secoli di civiltà per creare un uomo così debole.