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venerdì 7 ottobre 2011

NUOVO APPRENDISTATO CONTRO LO SPRECO DI CAPITALE UMANO

 

di Tito Boeri e Pietro Garibaldi

Cresce in Italia il numero dei giovani che non studiano e non lavorano. Anche per il fallimento della laurea triennale. Una soluzione potrebbe essere la formazione tecnica universitaria sul modello delle scuole di specializzazione tedesche: una riforma a costo zero per le casse dello Stato. L'università, insieme a un certo numero di imprese locali, potrebbe introdurre un corso di laurea triennale caratterizzato da una presenza simultanea dello studente nelle aule universitarie e in azienda. Controlli reciproci garantirebbero la qualità della formazione.
Con Turchia e Messico, l’Italia vanta il primato tra i paesi Ocse nella percentuale di giovani Neet (Neither in Employment, nor in Education or Training), non occupati, né in istruzione formale o formazione. È un fenomeno in aumento: negli ultimi anni abbiamo assistito a un forte incremento della disoccupazione giovanile e, al tempo stesso, ad un preoccupante calo delle immatricolazioni universitarie, diminuite del 10 per cento in tre anni. Una delle ragioni del calo è il fallimento delle lauree triennali. Molti giovani hanno paura a imbarcarsi in un percorso di studi che potrebbe durare fino a dieci anni e provano a entrare immediatamente nel mercato del lavoro pur con basse qualifiche, contratti precari e bassi salari. Al tempo stesso, le imprese hanno ridotto gli investimenti in formazione dei giovani che entrano in azienda.
UNA RIFORMA A COSTO ZERO…
Una riforma a costo zero per le casse dello Stato è quella di introdurre la formazione tecnica universitaria sul modello delle scuole di specializzazione tedesche, le cosiddette Fachhochschule. Ciascuna università, anche sede periferica, in accordo con un certo numero di imprese locali, potrebbe introdurre un corso di laurea triennale caratterizzato da una presenza simultanea in impresa e in ateneo. Metà dei crediti verrebbe acquisito in aula e metà in azienda. Il lavoratore sarebbe impiegato in azienda e seguito da un tutor. Con controlli reciproci fra università e impresa sulla qualità della formazione conferita al lavoratore che ridurrebbero fortemente il rischio di abuso. Benché retribuito, il lavoratore non avrebbe alcun diritto automatico a entrare in azienda.
Il rapporto tra università e ingresso nel lavoro è oggi affetto da una specie di circolo vizioso. Il sistema universitario è spesso accusato di preparare studenti poco adatti a entrare nel mondo del lavoro. Il mondo delle imprese, a sua volta, è accusato di non valorizzare le competenze apprese in università. Le indagini campionarie rivelano che in Italia il cosiddetto mismatch, la mancata corrispondenza fra le qualifiche acquisite nel corso di studio e quelle richieste dalle imprese, è nettamente più alto che negli altri paesi europei, a eccezione del Portogallo. La presenza di contratti a tempo determinato e l’alta percentuale dei giovani che entra nel mercato del lavoro con un contratto a progetto rafforza il circolo vizioso perché riduce gli incentivi delle imprese a fornire formazione in azienda ai nuovi arrivati, dato che vengono assunti con contratti a scadenza e dunque non si investe sulla durata del rapporto di lavoro. Bisogna rompere questo circolo vizioso incoraggiando, a costo zero per le casse dello Stato, un ingresso formativo nel mondo del lavoro. Ma prima di illustrare nei dettagli la nostra proposta è utile richiamare cosa è stato fatto a riguardo negli ultimi due anni.
L’APPRENDISTATO CONFEDERALE DI SACCONI
Nel luglio 2011 il Consiglio dei ministri ha approvato una “riforma dell’apprendistato” presentata come il principale canale di ingresso nel mondo del lavoro dei giovani italiani. L’idea della riforma è quella di demandare alle parti sociali, attraverso la contrattazione collettiva, la definizione di specifiche clausole contrattuali legate alla formazione e all’inserimento contrattuale e presumibilmente anche la gestione dei percorsi formativi. La legge approvata si limita a stabilire la durata dell’apprendistato in tre anni e a individuare quattro tipologie di apprendistato: i) quello per la “qualifica e il diploma professionale” per gli under 25 con la possibilità di acquisire un titolo di studio in ambiente di lavoro; ii) quello “di mestiere” per i giovani tra i 18 e i 29 anni che potranno apprendere un mestiere o una professione in ambiente di lavoro; iii) quello di “alta formazione e ricerca” per conseguire titoli di studio specialistici, universitari e post-universitari e per la formazione di giovani ricercatori per il settore privato; iv) quello per la “riqualificazione di lavoratori in mobilità” espulsi da processi produttivi.
Il problema centrale di ogni contratto di apprendistato è assicurarsi che abbia davvero contenuto formativo. Nella pratica molti contratti di apprendistato vengono utilizzati solo come strumenti per ottenere più flessibilità e minori costi del lavoro. Non è casuale che la quota di assunzioni con i cosiddetti “contratti di formazione e lavoro” sia fortemente diminuita in Italia da quando si è permesso un maggiore ricorso ai contratti a tempo determinato e al parasubordinato.
Il governo affronta il problema chiedendo di fatto ai sindacati di normare e monitorare i contratti di apprendistato. Ma il sindacato in tutti questi anni avrebbe già potuto monitorare la gestione di questi contratti da parte dei datori di lavoro e verificarne il contenuto formativo. Non lo ha fatto probabilmente perché non ha la forza, la presenza in tutte le aziende, per farlo. E forse non è neanche capace di farlo. I sindacati da anni gestiscono corsi di formazione finanziati dal Fondo sociale europeo. E l’esperienza è tutt’altro che incoraggiante.
E GLI ISTITUTI TECNICI SUPERIORI DEL MIUR
Nello scorso maggio il Miur ha introdotto gli Istituti tecnici superiori, un passo utile per avvicinare mondo della formazione e mondo delle imprese. Gli Istituti tecnici superiori rappresentano un corso parallelo a quello universitario e sono fondazioni costruite da scuole, università e imprese. Si tratta indubbiamente di un’iniziativa interessante, ma nella nostra idea si dovrebbe dar vita a veri e propri corsi di laurea. Non servono altre fondazioni. Ne abbiamo fin troppe in Italia. Le università, probabilmente, sono poi restie a creare percorsi paralleli a quelli universitari. I trienni specializzanti devono invece offrire una prospettiva a quelle sedi universitarie che non raggiungono la massa critica che loro permette di attivare corsi di biennio o superiori di qualità.
IL CONTROLLO RECIPROCO FRA AZIENDA E UNIVERSITÀ
La verifica dei contenuti formativi forniti dall’azienda dovrebbe invece venire affidata a chi ha come compito istituzionale proprio la formazione. La riforma del governo dimentica del tutto l’università. È un errore molto grave. Vediamo come è possibile creare una collaborazione e al tempo stesso un controllo reciproco fra imprese e università nella gestione dell’apprendistato.
Il sistema universitario italiano ha adottato, ormai da quasi un decennio, il percorso universitario del “tre” più “due”. Secondo l’idea originale della riforma, la prima laurea triennale generalista dovrebbe essere seguita e conclusa dalla maggior parte di chi si iscrive all’università, mentre la laurea specialistica dovrebbe essere riservata agli studenti più meritevoli dal punto di vista accademico. La riforma ha riguardato quasi tutte le discipline e tutti i paesi europei, con l’eccezione della scuola di medicina e della laurea in giurisprudenza, che hanno generalmente mantenuto la durata tradizionale di 6 e 5 anni. Ad ogni modo, la laurea triennale avrebbe dovuto permettere alla maggior parte degli studenti di entrare nel mondo del lavoro. Così non è stato. Quasi tutti gli studenti iscritti alla triennale proseguono con il biennio specialistico e il mondo delle aziende non è riuscito ad accettare l’idea che la laurea triennale sia sufficiente per entrare nel mondo del lavoro da laureato. È difficile stabilire se la colpa sia del mondo delle imprese o del mondo universitario, ma è evidente che il sistema scuola-lavoro, sulla laurea triennale, non ha funzionato. Occorre quindi un nuova idea di apprendistato.
IL NUOVO APPRENDISTATO UNIVERSITARIO
L’idea è semplice. Ciascuna università, insieme a un numero di imprese localizzate sul territorio, dovrebbe istituire un corso di laurea triennale di specializzazione tecnica. Lo studente lavoratore acquisirà metà dei crediti del corso in azienda e metà dei crediti in università. Sia le imprese che le università metteranno a disposizione un tutor che seguirà il ragazzo in università e in azienda. Il ragazzo o la ragazza saranno formalmente impiegati presso l’impresa con un contratto di apprendistato della durata di tre anni, ma l’azienda non avrà alcun obbligo di assumere il giovane con un contratto unico di inserimento alla fine del triennio. Questo tipo di percorso è facilmente realizzabile nelle discipline aziendali, in quelle bancarie e assicurative, nelle discipline contabili, in giurisprudenza e anche nelle amministrazioni pubbliche. E, a seconda della specializzazione del territorio di riferimento, può essere introdotto in imprese chimiche, elettroniche, bio-mediche, nelle scienze medicali, nel design e nella gestione del turismo.
In Italia vi sono circa ottanta atenei, troppi. Molti non sono in grado di fare ricerca. Non hanno la massa critica per farlo. Ma possono garantire un buon livello di didattica. Ciascuno di questi atenei dovrebbe stringere degli accordi con le associazioni di categoria e i sindacati presenti sul territorio. Le imprese che aderiranno all’accordo dovranno soltanto impegnarsi a prendere nella loro forza lavoro un certo numero di apprendisti per anno. Ovviamente le province dell’Italia centrale daranno origine a percorsi di specializzazione tecnica diversi da quelli del Nord Italia e del Meridione. Si potrebbe così instaurare una specie di federalismo universitario basato sul rapporto impresa locale e università locale. Nel Mezzogiorno ci potrebbe essere una specializzazione nell’industria turistica mentre in alcune regioni settentrionali vi sarebbero corsi di apprendistato universitario in meccanica e scienze biomedicali.
Un aspetto importante riguarda il contratto di lavoro del giovane studente. Il contratto di lavoro in apprendistato universitario potrebbe essere simile a un contratto a progetto o a contratto a tempo determinato e non ci sarebbe alcun obbligo dell’impresa all’assunzione in via permanente. Tecnicamente è forse solo necessario che il ministero dell’Università e della ricerca autorizzi gli atenei a creare questo tipo di corso di laurea. Spetterebbe poi alle imprese locali e alle università organizzare i corsi.
Si possono anche fare delle stime. I grandissimi atenei potrebbero facilmente organizzare una decina di questi corsi con bacino di circa 800 studenti per ateneo, pari a 80 studenti per anno in ciascun corso di apprendistato. I piccoli atenei difficilmente ne organizzeranno più di due o tre ciascuno. In questo modo si potrebbe arrivare ad avere ogni anno 12-15mila nuovi giovani occupati in contratto di apprendistato. A regime, e calcolando i giovani apprendisti su tre anni, la riforma potrebbe portare i giovani occupati in apprendistato intorno alle 50mila unità, un numero di occupati che avrebbe effetti aggregati sul mercato del lavoro. Inoltre, dopo un triennio tra università e azienda, le prospettive occupazionali di lungo periodo di questi giovani sarebbero certamente migliori di quelle attuali. I giovani, una volta laureati con il contratto di apprendistato potrebbero poi entrare definitivamente nel mercato del lavoro grazie a contratti a tempo indeterminato come il Contratto unico di inserimento.

1 commento:

  1. Una proposta seria e a costo zero, che potrebbe dare delle risposte concrete al problema della disoccupazione giovanile.
    Servirebbe solo l'interessamento del minestero dell'istruzione e delle associazioni di categoria.
    In attesa che qualcuno si muova, aspettiamo fiduciosi, con la speranza che non sia troppo tardi.
    Agos

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